La pace ha bisogno delle donne
Vittime o carnefici? Attrici di guerra o di pace? Le donne hanno spesso un ruolo determinante nei conflitti, che raramente viene però preso in considerazione. Attraverso un nuovo piano la Svizzera intende invertire la rotta e applicare così la risoluzione 1325 dell'ONU che quest'anno festeggia il 10° anniversario.
La guerra è una cosa da uomini: sono loro ad imbracciare il fucile, a morire sul campo, a negoziare un accordo di pace e a ricostruire il paese. Almeno così si credeva fino a pochi anni fa.
È soltanto a partire dal 31 ottobre del 2000 che la comunità internazionale ha sottolineato per la prima volta esplicitamente l'impatto dei conflitti armati sulle donne e l'importanza della partecipazione femminile nei processi di negoziazione. Questa data coincide infatti con l'adozione della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell'ONU, un documento che ha permesso a diversi stati di integrare la prospettiva di genere nei programmi di pace.
«Finora sono 17 i paesi che hanno elaborato una strategia nazionale per cercare di concretizzare gli obiettivi previsti dalla risoluzione 1325», spiega l'ambasciatrice elvetica Heidi Tagliavini. «La Svizzera ha presentato oggi il suo secondo piano d'azione – dopo quello del 2007 – nell'intento di aumentare la proporzione di donne negli organismi di promozione della pace».
Un bilancio positivo e allarmante
Malgrado le buone intenzioni, in Svizzera come altrove le cose sul campo non sono cambiate molto: le donne poliziotto o soldato restano una minoranza, e anche nelle sfere politiche o diplomatiche la loro presenza è pressoché un miraggio. Per lo più vengono riconosciute come vittime delle conseguenze di un conflitto: povertà, abusi, malattia, emigrazione.
«A dieci anni di distanza, il bilancio è positivo e allo stesso tempo allarmante», dichiara Heidi Tagliavini, che dal 2002 al 2006 ha diretto la Missione di osservazione ONU in Georgia. «La risoluzione 1325 è senza dubbio uno dei principali strumenti di difesa dei diritti delle donne in situazione di guerra, ma questo non basta».
«Secondo uno studio del Fondo delle Nazioni Unite per le donne (UNIFEM), dal 1992 nei 24 processi di pace più importanti, soltanto il 3,2% dei mediatori e il 5,5% degli osservatori erano donne. Com'è possibile ottenere una pace giusta e duratura quando la metà della popolazione viene esclusa ancor prima di cominciare?».
Da combattenti a negoziatrici
La partecipazione delle donne ai processi di pace è ancora più importante in un contesto in cui gli schemi tradizionali sembrano essere stravolti. «Dobbiamo superare la vecchia illusione secondo cui in un conflitto la donna è unicamente "vittima"», denuncia Elisabeth Decrey-Warner, presidente e cofondatrice dell'ONG Appel de Genève. «Al pari degli uomini, le donne possono essere responsabili di una guerra, sono parte di questo inferno».
Da più parti si sente ormai dire che per garantire la sicurezza nel 21esimo secolo le donne potrebbero essere tanto importanti quanto la questione dello scudo missilistico europeo. Una semplice provocazione? Forse.
Sta di fatto che è impensabile affrontare la questione delle donne kamikaze in Afghanistan o delle guerrigliere in Africa o in America latina soltanto da una prospettiva maschile. La risoluzione 1325 ha dunque quale obiettivo prioritario il rafforzamento della partecipazione delle donne nella promozione della pace.
Si tratta da un lato di permettere alle donne di sedersi al tavolo dei negoziati, e dall'altro di favorire il loro intervento direttamente sul campo. A volte una presenza femminile nelle zone di conflitto è perfino indispensabile per superare le barriere culturali o religiose. Le soldatesse possono ispezionare con maggior facilità e rispetto le donne musulmane ai posti di controllo, riescono a conquistare la fiducia delle vittime di abusi sessuali e, secondo alcuni, avrebbero anche un effetto positivo sulle truppe.
Integrità e credibilità
Al di là della retorica, tuttavia, non è sempre facile assumere il ruolo di promotrice della pace in un contesto prettamente maschile. L'ambasciatrice Heidi Tagliavini lo ha sperimentato sulla propria pelle: «Per una donna, l'integrità e la credibilità sono fondamentali per sopravvivere in quei paesi patriarcali come nel Caucaso. Non è stato facile intavolare un dialogo. Abbiamo dovuto lasciare un po' di tempo agli uomini affinché si abituassero all'idea di avere una donna seduta di fronte a loro…».
La formazione e la sensibilizzazione sono dunque determinanti per favorire una rappresentanza paritaria. In Nepal, ad esempio, la Svizzera ha organizzato diverse conferenze e incontri tra le donne e i partiti politici per accrescere la loro consapevolezza. Le nepalesi hanno infatti avuto un ruolo particolarmente attivo nel conflitto nazionale come leader e combattenti maoiste, come membri dell'esercito o come attiviste nei movimenti pacifisti. Malgrado il loro contributo, sono state però in gran parte escluse dal processo di democratizzazione del paese.
La Svizzera in primo piano
La presenza elvetica in Nepal è soltanto una delle attività promosse dal governo elvetico nell'ambito della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Dal 2007, la Svizzera dispone infatti di un piano d'azione nazionale, rielaborato nel novembre 2010 in collaborazione con diverse ONG.
«Per la prima volta, il piano d'azione nazionale fissa degli obiettivi specifici per i vari dipartimenti e attori coinvolti», ci spiega l'antropologa Ursula Keller, responsabile dei progetti presso La Fondazione svizzera per la pace (swisspeace). «In questo modo sarà più facile valutare i risultati raggiunti e portare i correttivi necessari al progetto, nel 2012».
Tra gli obiettivi fissati figura in primo luogo la promozione delle candidature femminili nelle organizzazioni regionali o internazionali e l'aumento al 40% della quota femminile nel Pool di esperti svizzeri. La Confederazione si impegna inoltre a rafforzare la prevenzione della violenza sessuale e a favorire l'invio di osservatori speciali nei paesi più a rischio.
«Non mi azzarderei a dire che la strategia elvetica potrà cambiare la vita quotidiana delle donne in Afghanistan o in Congo», ammette Ursula Keller. «Ma si tratta comunque di un impegno forte da parte dell'amministrazione elvetica e va salutato favorevolmente».
A dieci anni dall'adozione della risoluzione 1325 molto resta ancora da fare. Una cosa però è certa: «la costruzione della pace è un compito che spetta a tutta l'umanità», conclude Elisabeth Decrey-Warner. Per riuscire nel loro intento, «le donne devono iniziare a lottare per tutti e non solo per le altre donne». Perché anche se la guerra colpisce diversamente l'altra metà del cielo, ciò non significa che non coinvolga tutti, donne e uomini indistintamente.
Donne, pace e sicurezza
Il 31 ottobre 2000, il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha varato la risoluzione 1325 sulle donne, la pace e la sicurezza.
Il documento stipula tre obiettivi principali:
- Rafforzare la partecipazione delle donne nei processi decisionali di promozione della pace;
- Migliorare la prevenzione della violenza specifica di genere e salvaguardare le esigenze e i diritti delle donne durante e dopo i conflitti armati;
- Adottare un comportamento sensibile all'uguaglianza tra i sessi in tutti i progetti e i programmi di promozione della pace.
Oltre agli Stati membri, al Consiglio di sicurezza e al Segretariato generale dell'ONU, tutte le parti coinvolte in conflitti armati e tutti gli attori impegnati nella promozione della pace sono invitati ad applicare la risoluzione.
Le donne nei conflitti armati
Secondo le stime delle Nazioni Unite, il 90% delle vittime dei conflitti armati sono civili, in gran parte donne e bambini.
Un secolo fa erano essenzialmente soldati e membri del personale militare.
Anche se è l'intera comunità a soffrire le conseguenze di una guerra, sono principalmente le donne e le bambine ad essere toccate, a causa del loro statuto sociale e del loro sesso.
Spesso sono vittime di abusi sessuali sistematici, come tattica di guerra.
L'assassinio, la schiavitù sessuale, la gravidanza e la sterilizzazione forzata rappresentano altre forme di violenza verso le donne in un contesto di conflitto armato.
Ciononostante, le donne non devono soltanto essere percepite come vittime di guerra. Assumono infatti un ruolo chiave nell'assicurare la sopravvivenza della loro famiglia durante i peridi difficili e sono attive nei movimenti di difesa e promozione della pace.
Restano tuttavia assenti dai negoziati di pace.
Fonte: (www.un.org)

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