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Rinunciare all'amore per la libertà

Hanno poco più di vent'anni e hanno rinunciato a tutto, perfino all'amore, per inseguire la libertà. In Siria, le combattenti curde sono il simbolo di un nuovo progetto di società, paritario e federalista. Antropologo francese, Stéphane Breton ha filmato per sette mesi la vita quotidiana di queste donne, ai margini della guerra. Documentario d'immersione, «Filles du feu» è stato presentato fuori concorso al festival di Locarno.  

Questo contenuto è stato pubblicato il 05 agosto 2017
Stefania Summermatter, Locarno
Giovani, dolci, determinate e per nulla fanatiche: così il regista francese Stéphane Breton descrive le combattenti curde in Siria. pardo.ch

swissinfo.ch: Sociologicamente parlando, chi sono queste donne? 

Stéphane Bréton: Hanno tra i venti e i trent'anni e provengono per lo più da famiglie contadine. Sono donne molto dolci, determinate e per nulla fanatiche. Si sono impegnate per la vita a combattere nella guerriglia curda in Siria, rinunciando a tutto. Vivono separate dagli uomini, in case o su piani diversi, ma combattono fianco a fianco. Non c'è alcuna forma di violenza o di sottomissione, ma grande rispetto e amicizia tra i combattenti. È una relazione molto paritaria, con la particolarità che l'amore tra uomo e donna è assolutamente vietato. 

swissinfo.ch: Come si spiega questa abnegazione? 

S. B.: Non lo so. Penso che se l'amore avesse diritto di esistere, sarebbe più forte di tutto e rimetterebbe in discussione la loro forza. Devono avere un unico obiettivo, essere pronte a sacrificare la loro vita, i loro amici, anche se con sofferenza. Per questo l'amore è impossibile e inimmaginabile. Lo sanno fin dal principio ed è una regola che tutti rispettano.

swissinfo.ch: La rivoluzione curda in Siria non è solo una battaglia contro lo Stato islamico e Bachar al Assad, ma anche il tentativo di costruire un nuovo modello di società. Di cosa si tratta? 

S. B.: I membri della guerriglia curda in Siria sono molto politicizzati. Ideologicamente appartengono al movimento del PKK, anche se politicamente sono due gruppi distinti. Si definiscono marxisti-leninisti, un concetto che va però inserito nel suo contesto. In un paese come la Siria, dove i diritti dei curdi vengono calpestati e dove le donne non hanno diritto di cittadinanza, essere marxisti-leninisti significa semplicemente rincorrere il sogno di vivere pacificamente gli uni accanto agli altri. O per lo meno è così che io lo percepisco.

Di fronte al potere corrotto e crudele di Bachar al Assad e alla violenza abominevole degli islamisti, i combattenti curdi propongono un modello di società nel quale la politica e l'arte della discussion hanno diritto di esistere e dove uomini e donne hanno gli stessi diritti e doveri. Il fatto stesso di permettere alla donne di prendere il fucile è impensabile in una società retta da un Islam radicale. La loro rivoluzione comincia da qui! 

Una scena tratta dal documentario «Filles du feu». pardo.ch

swissinfo.ch: Non c'è il rischio di idealizzazione? 

S. B.: Non sostengo che siano delle eroine. Ma sono convinto che questa piccola società paritaria rappresenta un'utopia e un modello nella regione, a parte il fatto che non c'è l'amore, la riproduzione, la famiglia e i figli. L'amore unisce uomini e donne, ma li separa anche.

swissinfo.ch: La guerra in Siria è entrata nel settimo anno. In che modo riescono a resistere queste giovani al fronte? 

S. B.: Molte di loro muoiono in combattimento, non bisogna dimenticarlo. A parte ciò, i curdi sono sempre stati considerati nell'impero Ottomano come i migliori soldati. Il loro coraggio non è una virtù personale, ma una virtù civica: è l'abnegazione. Non si tratta dunque di una milizia o di un esercito, ma di un popolo armato. È questa la grande differenza con gli islamisti, che i curdi chiamano d'altronde «mercenari». I guerriglieri curdi non sono pagati e non possiedono nulla. Questa sorta di frugalità mi affascinato molto. Tirano avanti grazie al the, al fuoco e alle sigarette: quando riescono ad avere queste tre cose, cantano. 

swissinfo.ch: Il loro obiettivo finale resta comunque la creazione di una regione indipendente o per lo meno autonoma? 

S. B.: Diciamo che per il momento sognano di essere liberi. Il loro sguardo è fermo al presente. Non parlano di indipendenza, ma di autonomia sì. Propongono la creazione di un sistema federalista, dove ciascuno possa vivere secondo le proprie leggi e aspirazioni. La Siria è un paese molto complesso, con un numero importante di popoli e religioni. I curdi difendono l'idea che tutte le minoranze abbiano il loro posto nella società. Non dimentichiamo che in Siria i curdi non avevano il diritto di parlare la loro lingua, malgrado siano presenti sul territorio da oltre 5mila anni! 

Nato a Parigi nel 1959, Stéphane Breton è un cineasta, fotografo ed etnologo francese. Ha realizzato numerosi documentari tra cui Eux et moi (2001), Le Ciel dans un jardin (2003), Le Monde extérieur (2007) e Les Forêts sombres (2015), selezionato al Cinéma du réel. Stéphane Breton insegna inoltre antropologia e cinema documentario presso l’École des hautes études en sciences sociales a Parigi. pardo.ch


swissinfo.ch: «Filles du feu» segue queste donne nella loro quotidianità, senza però filmarle durante i combattimenti. Una scelta voluta o imposta? 

S. B.: Non volevo fare un film sulla guerra, perché sono un pacifista. E in ogni caso i curdi non mi avrebbero mai permesso di accompagnarli, perché è troppo pericoloso. Sono dunque sempre rimasto ai margini della guerra, per capire a cosa assomiglia la vita quando tutto può finire un istante dopo. E ciò che ho trovato è un gran senso di tranquillità. Può sembrare paradossale, ma è così. 

swissinfo.ch: Questo ideale di parità si sta diffondendo anche al di fuori della guerriglia? 

S. B.: No, loro sono senza dubbio all'avanguardia in questo senso. Dalla conquista di Kobané, le donne curde sono però viste come eroine. C'è un sorta di mito che si è costruito attorno alla loro figura e quando passano nei villaggi le ragazzine le guardano con ammirazione. Questo potrebbe senza dubbio favorire un cambiamento, ma ci vorrà del tempo.

swissinfo.ch: Il suo è stato un lavoro di immersione nel mondo delle combattenti curde. È stato difficile farsi accettare? 

S. B.: No, per nulla. I curdi non amano i giornalisti, perché arrivano, fanno domande e un'ora dopo se ne vanno. Io sono rimasto al loro fianco per mesi e mesi. Mi svegliavo alle tre del mattino e mangiavo con loro il pane rinsecchito. Non facevo domande, ma osservavo. D'altronde non parlo la loro lingua e questo era un vantaggio. Mi ha permesso di concentrarmi sul tempo della vita sociale. Ogni società ha il suo tempo, un modo di viverlo e di comprenderlo e non è qualcosa che si può raccontare a parole. Filmarlo però sì ed è quello che ho cercato di fare. 

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